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CAPUT II.

Officina veterum, ac modernarum Lucernarum seu Lampadum.

ANtiquo Aegyptiorum, ac Romanorum tempore in delubris, et Fanis in Adytis, et Cryptis, in subterraneis specubus et tumulis ad multa saecula Lampades et Lucernas vario hieroglyphicorum apparatu ad ornatas arsisse Scriptores narrant, cujusmodi magna arte, majori eruditione fabrefactae, hic ab antiquitatis tenebris ad lucem erutae, et conservatae spectantur; de quibus Author in quarto Tomo Oedipi in Theatro hieroglyphico syntagmate XX. fusè agit. Porrò, materia, forma, et figura Lampades hae variant. Quoad materiam plurimae sunt ex metallo, multae ex aurichalco, pleraeque ex terra figulina, seu terra Samia confectae. Forma variabatur ab antiquis pro ratione Numinum, quae his ignibus colebantur. Sic qui septem Planetas colebant, Lucernâ septem lychnorum utebantur. Duodecim signorum Zodiaci honori, eorumque Geniis totidem celebrabant consecrabantque lychnuchis instructam.
Demophilus vetustissimus author scribit Heliopoli in Templo Solis fuisse Lucernam tot lychnis illuminatam, quot dies annus habet. Item Athenaeus lib. 15. de Tarantinis refert, eorum curiam 365. lychnis ardentibus Lampadum juxta numerum dierum anni fuisse instructam: Geniis quatuor elementorum Tetragonas, Diis Manibus Trigonas accendebant Lampades; de quibus scribit Author in Oedipo, et Fortunius Licetus Patavinus, libro de veterum Lucernis.
In Musaeo sunt duodecim metallinae Lampades hinc inde dispersae, quarum aliae animalium simulacra referunt, aliae Satyrorum, et Idolorum variorum. Visuntur et nonnullae ex figulina terra, inter quas una ex Archimedis sepulchro eruta, à Laurentio Mirabella Authori donata, pro singulari affectus sui in tantum rei antiquariae peritum Virum testimonio. Sunt qui Lumen perpetuum hujusmodi Lampadibus asservatum testantur, et extant Historiae, quae perpetuas faces probare vedentur: unde evenit ut varii inquisitione rei insolitae animati Herculeo conatu tentârint praestare, quod ab antiquis factum credebantur, artemque temporis voracitate absumptam et negligentia deperditam, suscitare conati sunt, et ne quidquam de eius possibilitate definiam, hi mihi sane ex eorum numero esse videntur, qui in Geometria arcaniori Tetragonismum circuli, qui motus artificialis perennitatem, qui lapidem Philosophicum Chrysopoeum magmum naturae, uti ajunt, Sacramentum sollicitius et ambitiosus, at inuitili et irrito labore Sysiphi faxum volventes laborant; licet in rerum natura aliud principium perpetuationis non appareat, quàm innatus quidam appetitus propriae conservationis, qui licet omnibus rebus insit, quia tamen nullum Physicum ens est, quod contrario careat, hinc Physica actione unum contrarium alterius vires superat, et consequenter immutat, unde hic appetitus nihil est aliud, quam actus formae naturalis excessivae vel defectivae, cujus medium non reperiatur.

Luminaria perpetua reperta memorat S. Augustinus lib. _____de Civit. Dei. c.6. ubi in quodam Veneris Fano inventam sub dio Lucernam, quam nulla tempestas, nullus imber extingueret asserit. Hic Romae sedente Paulo III. in via Appia, ultra mille quingentos annos ardens in Tulliolae Ciceronis filiae

CAPITOLO II.
L’officina delle lucerne o delle lampade antiche e moderne

Gli scrittori narrano che nel tempo antico degli Egizi e dei Romani, nei templi e nei santuari, nelle celle e nelle cripte, nelle caverne sotterranee e nelle tombe ardessero per molto tempo lampade e lucerne, ornate da un vario apparato di geroglifici; qui se ne ammirano alcune lavorate con grande arte e sapienza ancor maggiore, riportate alla luce dalle tenebre dell’antichità e poste così in salvo; l’Autore ne tratta diffusamente nel quarto tomo di Edip. nel teatro geroglifico, ventesimo libro. Queste lampade sono varie per la materia, la forma, e l’immagine. Per quanto riguarda la materia, moltissime sono di metallo, molte di oricalco, parecchie d’argilla o terra di Samo. La forma fin dall’antichità variava in relazione alle divinità che con queste lampade venivano venerate. Così chi venerava i sette Pianeti usava lucerne a sette lumi. In onore delle dodici costellazioni dello Zodiaco e dei loro Geni si dedicavano lucerne ornate di altrettante fiamme.
L’antichissimo scrittore Demofilo narra che ad Eliopoli, nel tempio del Sole, c’era una lampada illuminata da tante fiamme quanti sono i giorni dell’anno. Così Ateneo nel quindicesimo libro Su Taranto riferisce che il senato di quella città aveva un lampadario ornato di 365 lumi, quanti sono i giorni dell’anno: accendevano lampade quadrangolari ai geni dei quattro elementi, triangolari agli Dei Mani; a questo proposito scrive anche l’Autore in Ed. e Fortunio Liceto di Padova nel Libro sulle lucerne degli antichi.
Nel Museo ci sono dodici lampade di metallo, sparse qua e là, di cui alcune rappresentano figure di animali, altre di satiri e di vari idoli. Se ne vedono anche alcune di argilla, tra le quali una trovata nel sepolcro di Archimede, donata all’Autore da Lorenzo Mirabella, a testimonianza particolare del suo affetto verso un uomo tanto esperto di antiquaria. C’è chi giura che con lampade di questo genere si conservasse il lume perpetuo e vi sono storie che sembrano confermare l’esistenza di fiaccole perennemente accese; perciò capita che molti, animati dal desiderio di esplorare questa insolita fama, abbiano tentato con sforzo erculeo di dimostrare ciò che si credeva riuscisse agli antichi e abbiano provato a far resuscitare una tecnica inghiottita dalla voracità del tempo e smarrita per negligenza; e per non dire l’ultima parola su questa possibilità, a me sembra che costoro appartengano davvero al numero di quelli che in geometria ansiosamente e ambiziosamente, ma con fatica vana e inutile, volgendo il masso di Sisifo, si occupano della misteriosa quadratura del cerchio, del moto perpetuo procurato, della pietra filosofale capace di produrre l’oro, grande mistero della Natura, a quanto dicono; benché in natura non vi sia in apparenza altro principio di moto perpetuo se non l’innato desiderio di autoconservazione: anche se esso si trova in tutte le cose, tuttavia poiché non c’è alcuna entità fisica che sia priva del suo contrario, se ne deduce che per azione fisica un contrario supera le forze d’un altro e per conseguenza lo muta: perciò questo desiderio non è altro che l’atto di una forma naturale eccessiva e difettosa, di cui non si trova il mezzo.

Sant’Agostino, nell’opera De civitate Dei, capitolo VI, ricorda che furono ritrovati lumi perpetui e nel luogo citato asserisce che fu trovata all’aperto, in un tempio di Venere, una lampada che nessuna tempesta, nessuna pioggia, riusciva a spegnere. Qui a Roma, all’epoca di Paolo III, lungo la Via Appia, ne fu trovata una che ardeva da oltre 1500 anni nel monumento di Tulliola, la figlia di Cicerone.